Filippo Lovato
echi

Addio a Daverio, maestro dei curiosi

Se n’è andato a 70 anni Philippe Daverio, il docente che sapeva trasformarsi in personaggio per finalizzare la tv alla divulgazione culturale. Mondano, cosmopolita e poliglotta, così il suo spirito è divenuto stile: “Vado alla ricerca dei rumori che stanno negli edifici, dei bisbigli che stanno nei dipinti, dei sussurri che stanno tra le righe di una poesia e soprattutto dei silenzi che stanno fra una nota e l’altra nella musica”.

L’arte è una cosa troppo seria per non scherzarci sopra. Lo sapeva Philippe Daverio, l’intellettuale brillante e poliglotta scomparso a poche settimane dai 71 anni (li avrebbe compiuti il 17 ottobre) nella notte tra l’1 e il 2 settembre scorsi. Abile divulgatore d’arti, era anche un connaisseur di musica, che entrava nel gioco dei riferimenti non meno di letteratura, pittura, scultura, architettura o arti applicate. Lo si è visto anche di recente, su Rai5, nelle malfatte riprese di vecchie puntate di Passepartout, la sua trasmissione più fortunata, corrotte nella loro crepitante energia da pallosi spezzoni didascalici che niente hanno a che fare con lo spirito del nostro.

Eccolo là, nel teatro del Bibiena di Mantova, ad accennare al clavicembalo il tema delle variazioni Ah je vous dirai, maman di Mozart, perché “qui Mozart suonò all’età di 13 anni”. E poi all’organo di una sperduta chiesetta tedesca a spiegare l’effetto delle innovazioni del grande costruttore tedesco Gottfried Silbermann sul contrappunto.

Alla radice del suo successo sta però un curioso fraintendimento: si dice, a ragione, che sapeva divulgare. Ma il suo non era un linguaggio nuovo. Era il ritorno a una pratica di mondo antica, squadernata con sorriso elegante davanti alle telecamere. Il suo contegno apparentemente frivolo, le livree variopinte che irradiavano in ardite giustapposizioni di colore dal centro pulsante dell’immancabile papillon, rievocano il tempo del divertimento sapido, del pettegolezzo feroce, di raffinati ed esoterici codici di condotta, rievocano il Settecento della civiltà della conversazione, quando una battuta perfetta poteva spalancarti le porte del salotto più esclusivo.

Daverio viveva qui, mondano e cosmopolita, dove non esistono valori assoluti, geni inimitabili, figure torreggianti e mitologiche che svelano al mondo la verità, dove l’arte non cura la vita, né allevia il dolore, ma diverte. Non perché sia divertente, ma perché permette di tessere relazioni con altri uomini, di altri tempi, che si manifestano attraverso il linguaggio criptico delle opere che ci hanno lasciato. “Gli altri non sono l’inferno, come sosteneva Sartre. A meno che non siate in coda in autostrada”.

Ma il divertimento, come il diavolo, si annida nei dettagli. Il dettaglio rivelatore trascina dietro di sé un mondo, la rete dei riferimenti, dei contatti, delle citazioni, volute o nascoste, quel mare che solo un uomo coltissimo poteva permettersi di solcare con tanta destrezza. Daverio li chiamava pettegolezzi: “Sono un antropologo culturale del pettegolezzo. Vado alla ricerca dei rumori che stanno negli edifici, dei bisbigli che stanno nei dipinti, dei sussurri che stanno tra le righe di una poesia e soprattutto dei silenzi che stanno fra una nota e l’altra nella musica”.

Da qui zampilla il fascino nelle sue conversazioni televisive che trasformavano il docente in personaggio e innescavano la curiosità. Perché Daverio aveva trovato un modo tutto suo di mettere in pratica l’impegno che si era preso il conte Xavier De Maistre e che capeggiava nello studio di Passepartout, “Je dois apprendre aux curieux”.