Il modo di fare musica, le differenze tra i Conservatori italiani e le istituzioni oltralpe, le condizioni della cultura musicale nel nostro Paese, e i musicisti che lo popolano… Il pensiero di Andrea Marcon, musicista veneto dal curriculum internazionale, fluisce libero come la sua persona. Ed è linfa vitale per il futuro del concerto. Venerdì 17 febbraio, nella chiesetta sconsacrata di San Domenico – meraviglioso spazio restaurato e dotato di un organo Zeni, che insieme a tutto il complesso conventuale ospita oggi il Conservatorio di Vicenza – il maestro Andrea Marcon ha “chiacchierato” pubblicamente con l’amico e collega Giancarlo Andretta, “padrone di casa” in qualità di titolare della cattedra di Direzione d’orchestra in seno al Conservatorio. Andrea Marcon è organista, clavicembalista e direttore d’orchestra dal curriculum internazionale, oltre che docente alla prestigiosa Schola Cantorum Basiliensis, in Svizzera; è anche il fondatore e direttore della Venice Baroque Orchestra, compagine tra le più affermate al mondo nell’interpretazione della musica barocca. Ma, prima di tutto, Andrea Marcon è un veneto ed un musicista, un ragazzo di questa terra che quarant’anni fa ha saputo guardare oltre certi confini culturali e politici. Ed è esattamente questa la sintesi del messaggio che, tra aneddoti, riflessioni e critiche, ha lasciato ai presenti alla conferenza, per lo più giovani studenti delle classi di Organo e composizione organistica, Clavicembalo e Direzione d’orchestra, oltre ad una manciata di persone tra docenti del Conservatorio ed esterni, musicisti e non. Il prossimo 10 aprile il maestro Marcon sarà a Vicenza per dirigere la Messa in Si minore di Johann Sebastian Bach, ospite della stagione concertistica della Società del Quartetto di Vicenza. Anche per questo, ma non solo, MusiCare ha piacere di condividere con i propri lettori almeno una parte delle considerazioni svolte dal maestro in occasione dell’incontro al Conservatorio: un modo di presentare un artista prossimo ospite in palcoscenico, nonché un’opinione autorevole sul futuro della musica colta. Qui, o altrove.
Il rispetto della musica. Non dico di sì a tutti i contratti, bisogna anche saper dire di no. A volte è difficile non onorare una proposta che arriva, o perché da un’istituzione importante o perché c’è un legame particolare. Ma in base al programma richiesto, ci sono dei tempi di maturazione diversi, e bisogna rispettarli.
“Non dico di sì a tutti i contratti, bisogna anche saper dire di no.”
Il rispetto della partitura e delle indicazioni del compositore devono venire prima di tutto. Prima di eseguire per la prima volta la Messa in Si minore ho aspettato vent’anni, per la Passione secondo San Matteo trenta.
Filologia e innovazione. Ho sempre avuto una prospettiva storica nell’approccio alla musica. E credo che questa abbia un’origine profonda: da bambino ho avuto la possibilità di mettere le dita sui tasti di un organo storico, del 1700, e lì è successo qualcosa, è stata una folgorazione. Quei tasti erano così diversi da quelli in plastica del pianoforte che avevo a casa. Ricordo anche quando andai nell’allora unico negozio di musica e dischi di Treviso, Fusco si chiamava, e chiesi delle Invenzioni a due voci di Bach, che allora stavo studiando: la signora mi allungò la copertina del long-playing e mi disse che era l’ultima uscita, ma che non era per pianoforte ma per clavicembalo. Io non sapevo nemmeno cosa fosse il clavicembalo, allora. Quando a casa lo ascoltai restai ancora una volta folgorato. Suonava un certo Gustav Leonardth, ed era così diverso da come io stavo studiando al pianoforte quella stessa musica e da come mi stavano insegnando quegli stessi brani…non solo il suono, ma l’interpretazione tutta.
“Bisogna avere il coraggio di innovare e applicare i propri studi.”
Ora mi trovo che nel preparare una sinfonia di Beethoven, ascolto le interpretazioni dei grandi del passato e non sempre mi ritrovo con quello che ho studiato. Sto per scalare l’Everest e mi sembra di mancare di rispetto ai grandi che mi hanno preceduto. Ma bisogna avere il coraggio di innovare e applicare i propri studi.
Meno burocrazia, più musica. Ho rinunciato all’insegnamento in Italia e ho scelto di lavorare all’estero perché le condizioni sono migliori. Ricordo quando al primo concorso per i Conservatori italiani sono arrivato quinto e ho potuto scegliere la sede di Foggia, dove era stata attivata la cattedra di clavicembalo. Quando ho preso servizio ho scoperto che non c’era il clavicembalo. Mi dissero che per loro era importante aver creato un nuovo posto di lavoro; il resto si sarebbe fatto col tempo. Ma, pochi anni dopo, anche a Trento le cose non furono facili né felici. Così ho fatto la scelta di Basilea, e ho abbandonato i Conservatori italiani.
“Ho rinunciato all’insegnamento in Italia e ho scelto di lavorare all’estero perché le condizioni sono migliori. Bisogna andare dove si può lavorare meglio, e così io ho fatto.”
È un altro mondo: c’è un sistema di reclutamento completamente diverso – non contano le collezioni di titoli come in Italia, ma il reale valore del soggetto – e un’organizzazione del lavoro migliore, rigorosa ma flessibile. Ho la possibilità di organizzarmi le lezioni e di lavorare con gli studenti in modo più adeguato alle loro esigenze. È tutto talmente diverso: non ci sono registri e firme, gli orari di apertura sono molto più ampi, dalle sette di mattina a mezzanotte, gli studenti hanno le chiavi della biblioteca e delle chiese per studiare, l’organizzazione delle lezioni è libera… Non esistono i sindacati, ma perché non ce n’è di bisogno. Se non “funzioni” ti licenziano: non controllano registri o firme, ma se non lavori o se non produci bravi diplomati, sei fuori.
Bisogna andare dove si può lavorare meglio, e così io ho fatto.
Sala da concerti o teatro d’opera? Se avessi guardato alla sala in cui mi è stato chiesto di eseguire la Messa in Si minore di Bach a Vicenza avrei dovuto dire semplicemente: “no”. Il Teatro Comunale di Vicenza è la cartina tornasole che ti fa capire a quale livello sia la considerazione della musica “classica” nel nostro Paese. Infatti non è un teatro ma una sala conferenze. In Italia spesso non sappiamo nemmeno la differenza che ci deve essere in termini di acustica tra una sala da concerti e un teatro d’opera: l’hanno capito i cinesi, non l’abbiamo capito noi italiani che abbiamo “inventato” la musica. UN TEATRO D’OPERA NON È UNA SALA DA CONCERTI E UNA SALA CONFERENZA, SPESSO CHIAMATA AUDITORIUM, È ANCORA TUTTA UN’ALTRA COSA.
“Il Teatro Comunale di Vicenza è la cartina tornasole che ti fa capire a quale livello sia la considerazione della musica classica nel nostro Paese.”
Nel caso in specie, ha prevalso il piacere di collaborare con un mio ex allievo, il maestro Enrico Zanovello, e di onorare l’invito del direttore artistico Piergiorgio Meneghini. Anche perché mi hanno spiegato quanto sia burocraticamente difficile qui, oggi, fare un concerto a pagamento in una chiesa anziché in teatro, se così vogliamo chiamarlo. Un’altra delle tante cose che ci distinguono da altri Paesi.
Come salvare il concerto? L’unica possibilità per cambiare è tornare a dare valore alla musica, all’esigenza di ascoltare musica. È stato già dimostrato che fa bene, ascoltarla e studiarla. Nei Paesi oltralpe è vissuta come una necessità, non come una moda o uno status.
“Servirebbe una rivoluzione culturale che partisse dai musicisti, perché i politici non sanno niente.”
Servirebbe una rivoluzione culturale che partisse dai musicisti, perché i politici non sanno niente. Da parte di tutti i musicisti ci vorrebbe un’alleanza non piccole schermaglie, conflitti, rivalità. Invece molti colleghi italiani pensano per sé stessi: quell’interprete contro quell’altro. Si perdono in invidie e gelosie invece di lavorare per il Paese, per la musica di qualità.