Cesare Galla
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Stravinskij, Mozart, Schubert:
la storia della musica
in un concerto

Dai falsi ricorsi storici del russo alle “turcherie” del salisburghese, per concludere con una sinfonia minore di un poeta della musica dalla vita troppo breve: il concerto della OTO del 13 gennaio, con Antje Weithaas in veste di konzertmeister, promette un ampio ventaglio di emozioni in musica.

 

Giusto un secolo fa, nella primavera del 1920, i già complessi percorsi della modernità in musica – in quegli anni una ricerca multiforme e diversificata come forse mai nella storia della musica occidentale – subivano uno scarto eclatante. “Istigato” ancora una volta dall’impresario teatrale e coreografo Sergej Djagilev, che tanta parte aveva avuto nel suo exploit parigino, Igor Stravinskij scriveva il balletto Pulcinella, primo passo di quella che i musicologi hanno definito “la virata neoclassica” dopo l’abbagliante “fase russa” della triade composta da L’uccello di fuoco, Petrushka e La Sagra della primavera.
Questa etichetta appare oggi sempre più riduttiva. E basti por mente alla modernità dello spettacolo andato in scena il 15 maggio all’Opera di Parigi, direttore Ernest Ansermet: si trattava di un balletto la cui partitura comprendeva anche tre parti vocali (soprano, tenore e basso), a disegnare una sorta di opera da camera basata su una vicenda tutta napoletana, fra seduzione, amore e gelosia, con la popolare maschera di Pulcinella che si sdoppia e addirittura quadruplica in qualche momento prima del lieto fine. La coreografia era firmata da Leonide Massine, le scene dipinte (nello stile di un teatro popolare viaggiante) e i costumi erano di Pablo Picasso. Nomi cruciali, tanto quanto il compositore, nella vicenda artistica e culturale della prima metà (e non solo) del Novecento.
Musicalmente, si trattava di un’operazione non originale, almeno nei presupposti. Già l’anno prima Ottorino Respighi, nella sua Boutique fantasque, ugualmente coreografata da Massine, aveva preso come punto di riferimento un compositore “d’epoca”, ovvero Rossini (e i suoi Pechés de vieillesse). Per Pulcinella il balzo all’indietro era più ampio: si tornava al Settecento e a Giovanni Battista Pergolesi.
Il collegamento, dichiarato fin dal frontespizio del lavoro (“musiche di Stravinskij da Pergolesi”), mezzo secolo più tardi si sarebbe peraltro rivelato un “fake”, come usa dire oggi. A partire dagli anni Settanta, gli studi storici e musicologici hanno infatti dimostrato che non c’è molto di autenticamente pergolesiano nelle musiche da cui prese le mosse l’autore russo. Gli spunti dai Concerti armonici portano inevitabilmente al nome dell’olandese Unico Wilhelm van Wassenaer (1692-1766), il vero autore dei brani a lungo attribuiti a Pergolesi; quelli dalle Sonate a tre, riconducono al compositore veneziano Domenico Gallo (1730-1768), che ne fu l’effettivo autore invece del napoletano, ma addirittura clamoroso è il caso della citazione della Cantata Se tu m’ami. In questo caso, si tratta di un falso doppio: non solo questa musica non è di Pergolesi, ma non è neanche d’epoca: secondo le più recenti acquisizioni, si tratta di una composizione “alla maniera di” realizzata a fine Ottocento dal musicologo e compositore romano Alessandro Parisotti, che la incluse in una sua pubblicazione di “Arie antiche” a nome di Pergolesi. E tuttavia, la realtà delle attribuzioni, lungi dal depotenziare l’operazione, ne delinea un ulteriore elemento di modernità, spiazzante nel gioco di rispecchiamento fra il vero e il falso antico con le relative metamorfosi e deformazioni.
Lo stravinskiano Pulcinella è dunque “musica al quadrato” in molti sensi e secondo traiettorie molteplici.

E la partitura afferma vigorosamente come il neoclassicismo, almeno per l’autore russo, non fosse questione di stile, ma di sguardo creativo: comunque soggettivo e in quanto tale innovativo, anche se i suoi presupposti guardano al passato e alla falsa oggettività di un pretestuoso “recupero”. Lo si nota in particolare nella Suite per orchestra che già due anni dopo la prima del balletto l’autore ricavò dalla sua partitura (e che è quella compresa nel concerto che la OTO propone il 13 gennaio). Il brano esalta splendidamente l’originalità moderna di questa musica: la tavolozza strumentale, che assume ove necessario anche i ruoli nell’originale affidati alle voci, è duttile, tagliente, spesso deformante, in piena corrispondenza con la personalissima rivisitazione armonica degli originali settecenteschi e con il vero e proprio “dissesto” ritmico attraverso il quale spesso il discorso viene condotto. Fino alle “evocazioni” jazzistiche del Duetto fra trombone e contrabbasso, che è un po’ la firma di questa partitura straordinaria.

La cronologia dei cinque Concerti per violino di Mozart è chiara e misteriosa allo stesso tempo. Furono tutti composti a Salisburgo nell’anno 1775, dal 14 aprile (quando venne ultimato il primo, K. 207) al 20 dicembre, che è la data apposta sul manoscritto del quinto, K. 219, il più popolare e forse il più bello, che sta al centro del programma del concerto del 13 gennaio. Ma perché proprio in quei pochi mesi il compositore allora diciannovenne si dedicò così intensivamente a questo genere, resta una domanda senza risposta. La serie delinea una maturazione particolarmente rapida ed evidente. Se il Concerto K. 207 è ancora legato per molti aspetti all’eredità del tardo Barocco, K. 219 nella tonalità di La maggiore, messo a punto appena otto mesi più tardi, è un capolavoro compiuto di equilibrio classicistico: delicato, profondo, poetico. L’Adagio esprime una tenerezza palpitante e leggera che forse non poteva essere apprezzata appieno a quell’epoca e nella provinciale Salisburgo. Non stupisce che il violinista Antonio Brunetti, direttore dell’orchestra di corte e probabilissimo primo esecutore di questi Concerti, lo abbia trovato “troppo studiato”. Mozart non fece una piega (ma sicuramente si confermò nella sua già inesistente considerazione verso i colleghi italiani) e gli confezionò un movimento lento alternativo (ora catalogato come K. 261), con i flauti al posto degli oboi nell’orchestra.

Pagina apprezzabile e non priva di qualche assonanza con l’originale ma francamente con esso non comparabile.

Il finale è un leggiadro Rondò-Minuetto, caratterizzato dal fatto che verso la metà l’atmosfera cambia completamente (anche sul piano dell’agilità richiesta allo strumento solista, per tutto il lavoro chiamato soprattutto a esprimere un cantabile eleganza) e fa irruzione una trascinante “turcheria”, omaggio evidente a una moda musicale che andava affermandosi nelle corti e nei teatri.

In questo caso, Mozart si autocitava: il tema caratteristico riporta ai frammenti di un balletto intitolato Le gelosie del Serraglio, scritto nel 1772 per le rappresentazioni dell’opera Lucio Silla, avvenuta a Milano. Che poi la ”turcheria” fosse in realtà di matrice ungherese (si tratta in sostanza di una movimentata czárdás, danza popolare magiara) conta poco: la funzione espressiva e la “stranezza” musicale garantivano attenzione e successo. Accadeva allora esattamente come ai giorni nostri, se è vero che nei paesi tedeschi questo concerto è anche oggi soprannominato “Türkisch”. Che si può rendere in italiano con l’epiteto “alla turca”.

Schubert compose la maggior parte delle sue Sinfonie fra i 16 e i 21 anni, cioè nell’arco di tempo compreso fra il 1813 e il 1818. Era l’epoca in cui frequentava lo Stadtkonvikt di Vienna, il Convitto cittadino, e subito dopo esserne uscito iniziava l’attività di maestro di scuola. Si tratta delle prime sei di un catalogo la cui numerazione diventa in seguito piuttosto accidentata per la presenza di vari abbozzi. Sono quelle meno note e quindi anche oggi le meno eseguite. Ben altra sarebbe stata la sorte della Sinfonia rimasta incompiuta, nella tonalità di Si minore (1822) e di quella in Do maggiore ultimata nel 1828, nota oggi come “La grande”, per distinguerla dalla Sesta, che è nella stessa tonalità: capolavori riconosciuti, stabilmente nel repertorio.
Scrivere Sinfonie a Vienna, nel secondo decennio dell’Ottocento, aveva implicazioni artistiche tutt’altro che facili, soprattutto in così giovane età. Quando ci si mise il ragazzo Schubert, il sommo Beethoven, la cui fama era inattaccabile ad onta della sua leggendaria misantropia, aveva già composto tutte le sue, tranne la Nona. Un corpus formidabile, una pietra di paragone neanche lontanamente avvicinabile. Molto meglio fare riferimento al magistero di un altro grande compositore austriaco, Joseph Haydn, che aveva lasciato un segno fondamentale nella storia stessa della Sinfonia e la cui devota memoria era freschissima, essendosi spento a Vienna nel 1809.
E tuttavia, nel mettere mano durante l’inverno 1814-15 alla sua seconda Sinfonia, nella tonalità di Si bemolle maggiore (brano finale del concerto del 13 gennaio), il diciassettenne viennese mostrava di non temere il confronto, impaginando un movimento iniziale particolarmente espressivo nella bipartizione fra Largo e Allegro vivace: un omaggio alla tradizione del Classicismo viennese adottato dallo stesso Beethoven nella sua recentissima Settima, portata al debutto solo un anno prima. In realtà, questo primo movimento è piuttosto collegabile ad un’altra pagina beethoveniana, l’Ouverture Le creature di Prometeo, risalente al 1801: una composizione che appartiene alla cosiddetta “fase neoclassica” del compositore tedesco, che fu esperienza creativa sostanzialmente breve e rarefatta, ma era evidentemente più vicina – ancorché datata – alla sensibilità schubertiana.

Di fatto, fin dal secondo movimento, un Andante con variazioni nel quale Schubert dimostra una notevole eleganza ed efficacia nel trattamento degli strumenti a fiato, il riferimento stilistico dominante torna a essere quello tardo settecentesco di Mozart e soprattutto di Haydn. Ma non si può non notare come il giovanissimo compositore avesse già chiara la necessità dell’equilibrio formale: dopo un energico Minuetto, il Finale Presto vivace riconduce all’atmosfera espressiva del movimento iniziale. E nell’insieme emergono anche in questa Sinfonia l’originalità e la poetica chiarezza che accompagneranno sempre, lungo una troppo breve vita, l’arte musicale di Schubert.

 

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* Cesare Galla è critico musicale e opinionista sui temi della cultura. Giornalista professionista dall’età di 25 anni, ha lavorato al Giornale di Vicenza come redattore, caposervizio e vice-caporedattore fino al 2014. Si è occupato di cronaca nera e bianca, di web e mondo digitale e soprattutto di spettacoli e cultura. Contemporaneamente, ha sempre svolto la critica musicale, dal 1996 anche sul quotidiano veronese L’Arena.
Ha recensito migliaia di concerti e centinaia di rappresentazioni operistiche e ha pubblicato alcuni libri, l’ultimo su Verdi. È socio dell’Associazione Nazionale Critici Musicali dalla fondazione.
Cura sul web il suo sito personale d’informazione, musicale ma non solo, www.cesaregalla.it
Collabora con i quotidiani on line Vvox e Lettera43.