Cesare Galla
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Un disegno sinfonico a sei mani: la OTO in Mozart, Haydn e Brahms

L’evoluzione della Sinfonia e del suo significato nelle pagine dei tre maestri, interpretate dall’Orchestra del Teatro Olimpico per la direzione di Gabor Takács-Nagy, celebre bacchetta internazionale. Viaggio dalla teatralità di Mozart all’intensità di Brahms, passando per il “mestiere” di Haydn.

Un’Ouverture e due Sinfonie, fra Classicismo e Romanticismo: questo l’itinerario disegnato dal concerto del 4 aprile nei nomi di Mozart, Haydn e Brahms. L’introduzione è quella disegnata dal salisburghese nella Sinfonia K. 318: non solo perché è posta ad aprire la serata, ma perché secondo molti autorevoli storici si tratta in effetti di una “Sinfonia avanti l’opera”, quella per il “singspiel” (opera in tedesco con parti recitate) conosciuto con il titolo apocrifo di Zaide. Lo fa pensare la forma (due parti allegre intercalate da una lenta) e anche la durata complessiva, che si attesta sugli otto minuti, oltre a un certo carattere “teatrale” che qualche addetto ai lavori trova in sintonia con l’opera, composta più o meno nello stesso periodo, la primavera del 1779 e i mesi seguenti, ma lasciata incompiuta.
La Sinfonia n. 90 di Haydn appartiene alla piena maturità del compositore e all’epoca – fra il 1785 e il 1789 – in cui scrisse una significativa collana di lavori destinati ad essere eseguiti a Parigi per i concerti pubblici della massonica Loge Olympique de la Parfaite Estime. Fra le cosiddette “Sinfonie parigine”, la n. 90 (1788) rimane in certo modo ai margini solo perché in realtà il musicista, dopo averla scritta su sollecitazione del suo confratello parigino Conte di Ogny (che dirigeva i concerti della Loggia nella capitale francese), la destinò anche a uno dei suoi mecenati viennesi, il principe von Öttingen-Wallerstein. Una duplice cessione che gli causò non pochi imbarazzi. La composizione è nella forma in quattro movimenti consolidata dallo stesso Haydn, con il primo Allegro preceduto da un’introduzione lenta. Trombe e timpani nell’organico strumentale (oltre a flauto, due oboi, due fagotti, due corni e archi), come pure la tonalità brillante per antonomasia di Do maggiore ne fanno un’esemplare della maiuscola energia creativa – qui con inflessioni auliche, quasi cerimoniali – con cui Haydn padroneggia in perfetto stile il linguaggio orchestrale e la forma dei quali egli stesso era uno dei fondatori. La dialettica motivica s’intreccia con la varietà timbrica in maniera coinvolgente ed equilibrata fino alla sintesi di un Finale coinvolgente ed estroverso fino a risultare quasi esultante.
Se Haydn al culmine della sua carriera maneggiava il genere con la disinvolta efficacia di un geniale artigiano di altissimo livello, nell’avvicinarsi alla Sinfonia Johannes Brahms dovette fare i conti – come tutti i musicisti dell’Ottocento, specie tedeschi – con l’eredità di Beethoven. E questo almeno in parte può spiegare il probabile record di durata nella gestazione della Prima brahmsiana, prolungatasi per almeno un ventennio fra il 1855 e il 1876. Il risultato di una simile complessa elaborazione è un capolavoro di sbalorditiva densità, tanto più rispetto alla essenzialità del materiale tematico. Musica “lavorata” con arte sofisticata, di straordinaria forza interiore, ma anche di una forza comunicativa che va oltre il clima designato dalla tonalità “eroica” di Do minore, per disegnare un paesaggio spirituale e sonoro insieme intimo e grandioso.