Filippo Lovato
notEventi

Dallo stridore alla limpidezza:
addio a Krzysztof Penderecki

È scomparso lo scorso 29 marzo il noto compositore polacco, aveva 86 anni ed una storia di suoni e rumori in musica. Dall’orrore storico di Threnodia per le vittime di Hiroshima, a quello cinematografico con le colonne sonore per Shining e L’esorcista. Ma anche il Requiem polacco dedicato al connazionale Giovanni Paolo II è opera sua, e “il gran temporale di suoni esasperati di Polymorphia termina con un limpido accordo di Do maggiore”.

Anche nella musica più radicale e d’avanguardia del compositore Krzysztof Penderecki, scomparso il 29 marzo nella sua casa di Cracovia a 86 anni, c’era una sanguigna espressività che ha proiettato quelle partiture al di là del mondo degli addetti ai lavori, facendo storcere il naso a qualche purista dell’ermetismo. Altri diranno, forse, se si tratta di suoni o rumori: certo erano suoni nuovi spremuti da strumenti antichi, specie gli archi, tanto nuovi che Penderecki dovette inventare una nuova notazione per farli emergere. E così, alla fine degli anni Cinquanta, ispirandosi al tracciato di un encefalogramma (anzi, talvolta basandosi su veri tracciati di encefalogrammi di ascoltatori esposti alla sua musica), ideò una notazione senza note, tutta linee e diagrammi e onde, un tributo a un’idea di gran moda allora, quella di un futuro sradicato da un passato compromettente come la Seconda Guerra Mondiale, che non poteva accontentarsi di un incremento di novità, ma doveva apparire estraneo, irriconoscibile, un oggetto lucido e senza commessure proveniente da un altro mondo, come gli UFO di Roland Barthes o il monolito di 2001: Odissea nello spazio.
Però Penderecki rimase ancorato agli strumenti tradizionali, e quindi al passato. Sono per orchestra d’archi due delle sue partiture più stranianti e celebri di allora e in assoluto delle sue più celebrate, la Threnodia per le vittime di Hiroshima del 1960 e Polymorphia del 1961. Quel gonfiarsi di stridori e ululati, quel fitto rovo di sonorità, quella pioggia di colpi e pizzicati, è arrivata al suo pubblico suggerendo uno e un solo sentimento: terrore. Non si sa dire se l’effetto sia stato voluto, ma la sperimentazione sul linguaggio alla fine ha trionfato non tanto per aver provato cosa può fare un’orchestra d’archi trattata in maniera non tradizionale, quanto perché a quel nuovo trattamento si è riusciti a dare un senso espressivo, una funzione. Non era esibizione di intelligenza e talento, era un nuovo sentimento nello spettro di quelli veicolati dalla musica.
Non è un caso quindi che molti suoi brani abbiano trovato posto nelle colonne sonore dei film. E non è un caso che si tratti spesso di film dell’orrore come L’esorcista di William Friedkin del 1974, Shining di Stanley Kubrick del 1980 o gli esperimenti estremi di David Lynch come Inland Empire del 2006. Penderecki aveva trovato una via, forse un involontario compromesso.
Poi certo, si potrà dire della sua fede cattolica, delle grandi partiture corali come Utrenja, la Passione secondo Luca, il Requiem polacco dedicato a Giovanni Paolo II, che hanno ammorbidito il suo approccio, della sua posizione critica, negli anni della maturità, nei confronti dello sperimentalismo, e del suo ritorno alla tonalità e a forme note come la sinfonia (8 al suo attivo), il concerto, il quartetto. Ma forse già all’inizio si poteva pensare che sarebbe finita così, con un ritorno, certo più consapevole, all’ordine antico. In fin dei conti, il gran temporale di suoni esasperati di Polymorphia termina con un limpido accordo di Do maggiore.


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