Giovanni Costantini
ilConcertoNONèMorto

Umanità e sacralità, ascolto e vita: la musica per Pietro De Maria

Dopo gli applausi interminabili ed i tre bis dello scorso gennaio – in coda al secondo Concerto di Rachmaninov – ed in vista del concerto coi Fiati di Santa Cecilia, abbiamo sentito il pianista veneziano Pietro De Maria per chiedergli cosa ne pensa del pubblico di Vicenza e del… concerto.

Non è una questione di applausometro e nemmeno di critica sulla stampa o di mere impressioni da foyer: Pietro De Maria, pianista di origini veneziane tra i più apprezzati della sua generazione, è indubbiamente molto amato dal pubblico dei concerti di Vicenza, che gli attesta apprezzamenti sotto varie forme. Anche lo scorso gennaio, in occasione della sua ultima comparsa al Comunale, in veste di solista nel “Rach 2”, gli applausi sono sembrati non volersi spegnere nemmeno al terzo bis. E, come ricorda egli stesso, nemmeno quando, prima ancora di toccare un solo tasto, si è seduto sul seggiolino davanti al grancoda.

La sensazione di chi scrive – primo ammiratore di questo pianista, va detto per onestà – è che, più o meno consapevolmente, il pubblico vicentino (ma per estensione vorrei dire veneto, avendo ascoltato Pietro anche in altri centri della regione) riconosca in De Maria “uno dei nostri”: un uomo, prima ancora che un musicista, che fa bene il suo lavoro; un musicista che sa emozionare senza perdere una dimensione umana e, dunque, umanizzante per chi ascolta; non un guru, non un dio del pianoforte, distaccato o dal cognome impronunciabile, ma il maestro che tutti vorrebbero avere.

Il sorriso di Pietro De Maria – questo l’avevamo già rilevato nel numero di MusiCare che gli avevamo dedicato un po’ di anni fa, con la copertina che recitava per l’appunto “Sorridi, è musica” – è quello della semplicità, di chi sa che oltre le sette note c’è una miriade di cose belle ed importanti e che forse, poi, la musica le racchiude tutte.

Pietro, il pubblico di Vicenza sembra ammirarti particolarmente…

«Hai ragione, non chiamiamolo applausometro, ma ricordo bene che il mese scorso, quando sono entrato in sala prima del concerto, il pubblico ha continuato ad applaudire anche quando mi sono seduto, il che è raro. È stato un po’ come se fossero già ben disposti alla mia presenza: questo mi ha colpito molto. Devo dire che mi è successo recentemente anche a Portogruaro; allora forse è vero, come dicevi tu: dalle parti venete c’è una maggiore identificazione…sono pur sempre veneziano.»

Il pubblico di Vicenza ti ha potuto ascoltare in veste di solista con l’orchestra ed in recital per pianoforte solo, ed ora torni in qualità di camerista, coi Fiati di Santa Cecilia. Al di là del fatto che il lavoro, oggi più di un tempo, richiede di fare tutto, tu in quale di questi generi ti riconosci maggiormente?

«Il mio maestro, Vianello, mi portava a fare molti corsi di musica da camera, per cui io sono cresciuto anche con questo genere, fin da subito. I giovani studenti guardano con sospetto alla musica da camera, come se se togliesse tempo alla preparazione pianistica. Invece io credo sia un’ottima scuola, oltre che un’occasione per conoscere pagine pianistiche se possibile ancora più belle di quelle scritte nel resto del repertorio.

Nell’ultimo movimento del Quintetto di Mozart, ad esempio (che De Maria eseguirà a Vicenza il 18 marzo, ndr), c’è un passo pianistico meraviglioso. È proprio la coda del pezzo, e sembra scritta sul nulla: gli strumenti a fiato tengono note lunghe ed il pianoforte muove in arpeggi alternati tra le due mani, che suonano in staccato… ogni volta mi viene la pelle d’oca!

In generale, posso dire che mi dispiacerebbe limitarmi ad uno solo degli ambiti che la musica offre. Collaboro poco coi cantanti, ma ad esempio ho il piacere di lavorare occasionalmente con Monica Bacelli che, oltre ad essere molto brava, è una musicista molto intelligente. Diciamo che se non sono sicuro dei partner preferisco suonare da solo e questo può accadere anche con l’orchestra, nel momento in cui non c’è sintonia col direttore.»

Che ricordo hai del Concerto di Rachmaninov a Vicenza?

«Era la prima volta che eseguivo quel Concerto in pubblico; l’avevo studiato a 19 anni, con Maria Tipo, ma poi non si era mai presentata l’occasione per eseguirlo. Ero molto concentrato sulla mia parte.

Eppure hai trasmesso un senso di profondità di lettura e di appoggio sulla tastiera di chi ha elaborato a lungo quelle pagine…

«Grazie… Credo che quello che studiamo bene da giovani vada effettivamente in profondità: probabilmente si è sentito questo.»

E del programma coi Fiati di Santa Cecilia, hai qualcosa da anticipare per preparare l’ascolto del pubblico?

«È bello che siano presentati insieme i due quintetti, come avviene spesso, per altro, essendo tra i pochi brani per quell’organico: Mozart è un capolavoro e Beethoven è suo figlio. Posso dire che in Beethoven il ruolo del pianista molto diverso: Mozart ha una scrittura molto concertante, mentre Beethoven è quasi un concerto per piano e fiati.»

Scrittura concertante, Concerto per pianoforte: questa parola ritorna spesso, con riferimenti diversi. Ma il concerto, come rito, è morto o emana solo un cattivo odore?

«Per carità! Secondo me stiamo andando troppo in là: si dice smettiamola con frac e ci sono quelli che suonano in jeans. Secondo me un minimo di ritualità, di “sacralità”, deve rimanere. È giusto che si cerchino altre formule perché in alcune stagioni c’è stato un calo di pubblico, ma questo non mi sembra il caso di Vicenza! Io magari sono ottimista di natura, ma non credo che la soluzione sia snaturare il concerto. Dò volentieri il mio contributo con incontri pre-concerto, interviste in sala, lezioni-concerto per le le scuole. Qualcuno sostiene che il problema sia legato ai cd, alla fruizione della musica da casa; ma come si ascolta dal vivo è un’altra cosa: l’esperienza del concerto è unica!

Piuttosto è urgentissimo che la musica faccia parte del curriculum scolastico di ciascuna persona, fin dall’asilo. E la musica vissuta, non solo studiata a livello teorico.»