Giovanni Costantini
laNota

Musica pratica vs musica teorica?!

Pare ci sia ancora qualcuno che distingue tra musicisti teorici e pratici, come se per essere davvero musicisti si potesse scegliere l’una o l’altra cosa. Poteva forse accadere molti anni fa, in altre condizioni culturali, e comunque la declinazione era principalmente lavorativa: se si suonava e s’insegnava strumento si era pratici, se si studiava e insegnava storia della musica o elementi di composizione e analisi, si era teorici. Banalizzando.

Pur non pretendendo la “tuttologia” e pur essendo assolutamente naturale che ciascun professionista approfondisca un ambito della propria materia, è oggi evidente che un musicista non può non avere una buona cultura musicale generale e non può non avere confidenza con la pratica strumentale e vocale. Sì, anche cantare: utilizzare il primo ed il più naturale strumento di cui si dispone, per esprimere e comunicare la direzione di una frase, per sentire la musica dentro di sé prima ancora che dallo strumento. Corde vocali e corde sentimentali che fanno vibrare un’anima.

Il grande pianista Murray Perahia, dall’alto dei suoi settant’anni, ci confessa che nella vita non ha solo premuto tasti bianchi e neri, ma che ha gioito e pianto, come in amore. Perché, dice, “dopotutto, l’esperienza musicale è amore”. Non è facile spiegarlo a chi sta studiando le scale e gli arpeggi; e forse nemmeno chi sta eseguendo la propria parte di “Aida” per la decima sera consecutiva, ne è esattamente persuaso.

Eppure, pochi altri fenomeni umani sono in grado di abbracciare i sensi mettendo in comunicazione la sfera cerebrale a quella fisica e sentimentale. In questo senso, suonare è un’esperienza totalizzante. Chi ascolta ne gode, ma non quanto chi suona, chi la musica la fa. Perché dissertare sull’amore può esser bello, ma farlo è meglio.

 

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