Capita di perdersi. In una città che non si conosce si perde la bussola tanto si è disorientati dalle novità e, magari, dalle bellezze che offre, e non si ritrova più la strada di casa. In montagna, in una camminata, si perde la direzione giusta perché ad un bivio si imbocca un sentiero sbagliato, oppure perché il sentiero giusto sembra finire in mezzo ai rovi.
Ci si può perdere anche nell’esecuzione di un brano musicale. Capita anche ai più grandi e solidi musicisti: una nota stonata, uno sguardo dal pubblico, qualcosa che distrae e fa perdere la misura, il tempo. Quando si suona con altri, scherzosamente, si dice che l’importante è iniziare e finire assieme: nel mezzo gli incidenti possono accadere. L’importante è ritrovarsi.
Perdersi e ritrovarsi è l’essenza della forma sonata, in musica: dopo aver esposto un bellissimo tema, l’armonia si allontana, si “scompone” per svilupparsi in qualcosa di inaspettato, a tratti irriconoscibile da ciò che l’ha generato. Ma poi la riconduzione ci prende per mano e ci rassicura: è il momento della ripresa, tornano il tema e l’armonia che l’ha generato.
Pierangelo Valtinoni e Paolo Madron – due autori vicentini di spicco nel panorama operistico europeo – hanno appena concluso quella che hanno definito la “trilogia della ricerca”. Nella loro prima opera, “Pinocchio”, il burattino perdeva ma poi ritrovava suo padre Geppetto, mentre nella seconda, “La Regina delle nevi”, Gerda ritrovava, al termine dell’opera, il suo compagno d’infanzia Kay. Così in quest’ultima, “Il Mago di Oz”, la protagonista Dorothy ritrova sé stessa al termine di un lungo e fantastico viaggio.
Capita anche di perdersi un concerto, magari l’ultimo di quel grande interprete. Un vero peccato. Ma al di là dei cosiddetti “eventi”, l’importante è che non venga a mancare la musica di ogni giornata: una colazione ascoltando le “Goldberg” di Bach, preparare la cena con Schubert in sottofondo, un viaggio in auto in compagnia del cantautore che ha qualcosa da dirci o, per qualcuno, una bella canzone dello Zecchino d’oro, rigorosamente di almeno vent’anni fa, quando non c’era l’elettronica ma solo poesia e fantasia. Purché ci sia musica.
La Società del Quartetto di Vicenza ha sempre proposto le proprie stagioni concertistiche non tanto con lo spirito del grande evento, quanto con quello di offrire una “colonna sonora” ad un territorio e ad ogni persona di quel territorio che, nella routine del proprio quotidiano, abbia piacere di fermarsi qualche ora ad ascoltare e ad ascoltarsi.
Anche quest’anno, l’invito è di non portarsi a casa il programma di sala come cimelio da incorniciare, ricordo del grande nome ascoltato dal vivo, ma di portare con sé una storia, un ricordo e l’eco dell’emozione che quel momento ha saputo dare. Perché certe emozioni ritornano, altre no, e bisogna saper cogliere le cose belle quando ci sono. È quando diventiamo sordi ai ricordi, e alla bellezza che ci indicano, che perdiamo un pezzetto di noi stessi.
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