Marco Bellano
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Aspettando le confidenze del Trio Debussy…

Se nella sala da concerto il protagonista indiscusso era il quartetto d’archi, nei salotti del ‘700 era il trio ad essere maggiormente apprezzato, perché più intimo, più confidenziale. Appena si potrà tornare a concerto, il Trio Debussy proporrà musiche di Haydn, Beethoven e Brahms: tre interpreti italiani per tre grandi autori della storia della musica.

Il trio formato da violino, violoncello e pianoforte è una formazione che simboleggia, in un certo senso, l’essenza del Classicismo: la sua natura è ben bilanciata (i due archi, insieme, hanno più o meno l’estensione di un pianoforte settecentesco) e si presta sia al virtuosismo, sia all’intrattenimento praticato in privato da raffinati dilettanti. In effetti, col passare del tempo, il trio con pianoforte divenne proprio l’alternativa “salottiera” alle formazioni “da concerto” come il quartetto d’archi. Eppure, i maggiori compositori dell’epoca, quali Franz Joseph Haydn e Ludwig van Beethoven – protagonisti del programma preparato dal Trio Debussy per il concerto che terrà nella Stagione del Quartetto di Vicenza, in sostituzione del Trio Montrose – annoverano tra le loro composizioni un significativo numero di trii. Accanto ai loro nomi, in scaletta, sta appropriatamente quello di Johannes Brahms, un romantico dallo sguardo sempre rivolto verso le eredità più nobili lasciate dal Classicismo musicale.

Come mai, dunque, compositori di tal caratura hanno dedicato tempo al trio, nonostante il suo “imborghesimento” e la sua presunta facilità di scrittura? La risposta sta proprio nell’intimità intrinseca a questa formazione: il trio è confidenziale. Offre ai compositori classici un’isola privata, lontana dall’ufficialità dei teatri; l’impegno non è certo assente, ma il desiderio più sincero è quello di scrivere bella musica per sé stessi e per il diletto dei destinatari. Questo sentimento è spesso evidente nei quarantacinque trii lasciatici da Haydn: quello Op. 86 n. 1 non è da meno, con i suoi tre movimenti in cui il pianoforte fa la parte del leone, lasciando agli archi compiti piacevolmente decorativi. Del resto, il frontespizio della prima edizione di questo trio recava scritto: Sonate per pianoforte con accompagnamento di violino e violoncello. Non bisogna però rimanere ingannati: l’inconfondibile vena ritmica e umoristica di Haydn emerge con grande carattere nel primo e nel terzo movimento, lasciando invece fluire un luminoso lirismo (offuscato da un’agitata sezione in tonalità minore) nell’Andante centrale.

Il rapporto tra Beethoven e i trii con pianoforte, poi, può apparire particolarmente sorprendente: è proprio con queste composizioni che il maestro tedesco scelse di aprire il suo catalogo “ufficiale”, ossia la numerazione delle sue opere considerate “maggiori” a suo giudizio. Nell’Op. 1 di Beethoven stanno appunto tre trii, realizzati tra il 1794 e il 1795. Come mai queste pagine “disimpegnate” furono numerate, mentre lavori precedenti di maggior impegno (come la Cantata in morte dell’imperatore Giuseppe II, del 1790) vennero ignorati? Probabilmente Beethoven, desideroso di iniziare una carriera di successo a Vienna, aveva bisogno di “debuttare” con composizioni predisposte a essere popolari, e dunque apprezzabili da un pubblico che fosse il più vasto possibile. Inoltre, non secondariamente, questo rendeva tali opere molto più “umane”: e tutto il percorso artistico di Beethoven fu in effetti votato all’umanesimo, con un culmine ideale nell’esortazione trascinante alla fratellanza contenuta nell’Ode alla gioia della Nona Sinfonia. Comunque, pur con queste premesse, Beethoven non rinunciò certo all’impegno e alla sperimentazione; anzi, sappiamo che Haydn (il quale fu, per breve tempo, maestro di Beethoven) raccomandò inizialmente di non far pubblicare il Trio Op. 1 n. 3, per via delle arditezze che conteneva!

Per Brahms, il discorso è sostanzialmente diverso. A fine Ottocento il Classicismo era ormai lontano, e le architetture che aveva generato in dialogo con pubblico e committenti erano state fissate una volta per tutte nel tempo. Brahms infuse nuova vita in queste architetture, contaminandole con lo spirito del Romanticismo e soprattutto con la propria ingegnosità nell’uso strutturale della variazione. Il Trio n. 2 Op. 87 è il secondo di tre, prodotti da Brahms in momenti tra loro lontani; in questo caso ci troviamo tra il 1880 e il 1882, quindi nella piena maturità del compositore, che negli anni precedenti aveva dato sfogo alla sua inventiva sinfonica. Questo Trio, coevo al Quintetto in Fa maggiore Op. 88, è sintomo di una risposta “cameristica” alla monumentalità dell’ispirazione sfogata nelle sinfonie (di cui resta comunque qualcosa, anche con soli tre strumenti); è però anche accesso ai sentimenti più privati di Brahms, e in particolare al suo sconfinato amore per il paesaggio montano. Il Trio, infatti, fu ispirato dai panorami attorno al centro termale di Bad Ischl, sfondo di molte villeggiature del maestro. Anche senza una destinazione “dilettantesca”, e con un pubblico nuovo, il genere del trio seppe dunque rimanere custode delle forme di bellezza musicale più semplici e intime.

Il Trio Debussy, composto da Antonio Valentino al pianoforte, Piergiorgio Rosso al violino e Francesca Gosio al violoncello, con oltre 30 anni di attività è il più longevo trio italiano e uno dei rari trii “a tempo pieno” nel panorama internazionale. Dalla loro intesa – e confidenzialità – scaturirà la musica di questi tre autori.