Mario Lanaro
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Tornare a teatro, come ‘na volta

Uno spaccato di vita mondana vicentina, in un tempo passato imprecisato, quando Vicenza aveva ancora i due bei teatri – il Berga ed il Verdi – che saranno poi distrutti da un bombardamento anglo-americano, la sera del 2 aprile 1944. Aspettando di poter tornare a teatro, il maestro Lanaro ci regala questa pagina di amarcord dialettale che mette al centro uno storico interesse della comunità per l’opera e la musica.

La Traviata (La Trabiata)
Fin da tosato gò sempre sentisto dire
che co i va a teatro i se va a divertire;
cussìta anca mi gò volésto provare
quel dì che a Vicènsa me ga tocà nare.
Vo dò in campo Màrsio e su a Teatro Verdi
me cavo un beliéto e domé che i verde
drio a ste siòre vo rento anca mi. (…)

Ben fatto sìe scale son stà in sofìto
che da sora in dò vedea proprio pulìto,
òmini e done tuti sentà,
un vendea sigari e l’altro el mistrà. (…)

A son de campanelo i tira su el nissolo
e impia la luce ch’el xe un Paradiso;
i gratava i jolini e i batea i tamburi
che balava anca i muri.
E uno ficà sul cùcio del can
el ghe fasea i moti movendo le man. (continua)

Nel prezioso volume pubblicato nel 1976 dall’Accademia Olimpica di Vicenza, Civiltà rurale di una valle veneta, La Val Leogra alle pagine 603/604 troviamo questa Singolare narrazione per adulti, un componimento in versi dialettali. Alle feste o ai banchetti nuziali capitava spesso di trovare simpatici personaggi dalla rima facile che declamavano poesie, filastrocche, dediche adatte all’occasione. Poteva essere un’improvvisazione oppure un testo imparato a memoria ma (riporto integralmente) le più diffuse erano alcune specie di bonarie satire frutto evidente di qualche persona istruita (…) nelle quali si canzonava l’imbarazzo (…) del paesano inesperto di fronte a fatti a lui ignoti del mondo più evoluto, e in particolare di quello cittadino.
È facile immaginare il tosato (giovane uomo) che va in città al Teatro Verdi per La Traviata. Anche mamma Anna, nata a Marano Vicentino nel 1926, mi parlava di un suo viaggio a Vicenza per ascoltare l’opera quando ancora era da sposare. La data? Sicuramente prima del 2 aprile 1944, anno in cui un bombardamento angloamericano distrusse il Verdi. Nella stessa sera, alle 21,30, Vicenza perse anche l’altro teatro, l’Eretenio dove nel 1830 Francesco Canneti, il Nostro vicentino, presentò la sua prima opera Emilia. Qualche dato: il Teatro Eretenio fu inaugurato nel 1784, con i suoi 1200 posti e un’acustica straordinaria. Più di cento anni dopo (1886) Vicenza ebbe il Verdi che con l’ampliamento del 1923 disponeva di ben 2280 posti.

Ci giunge esagerato quel viaggio a Vicenza. Per noi – oggi – il tragitto fino al capoluogo è uno spostamento tutto sommato semplice e – traffico e cantieri stradali permettendo – da fare in tempi brevi. Allora già mettersi in strada, uscire dal proprio paese era un’occasione speciale e, anni prima, era addirittura un avvenimento, certamente non per tutti ma per i più agiati, come leggo da Malo ‘900, La Pariglia 1902: Con che cosa si poteva paragonare lo spettacolo dell’uscita in tilbury (calesse leggero) da parte di G. B. Castelan col suo cocio Amo Grolla – il cocchiere Bernardo Grolla – abile a guidar la quadriglia o la pariglia di bai scalpitanti? L’orgoglio della contrà saliva ai vertici sapendo che i siori (la villa è in centro a Malo) andava a Milan per la stagione de la Scala. Di ritorno (si fermavano, come all’andata, a pernottare nei pressi di Peschiera del Garda) portavano i libretti e gli spartiti delle opere e tre volte alla settimana c’erano prove di musica e le arie del Trovatore e del Rigoletto, ascoltate sotto le alte finestre, erano riprodotte con voce stentorea nei porteghi della contrà.
Questi versi ce la raccontano lunga, troviamo spunti per riflessioni varie. Vicenza, oltre al gioiello qual è il Teatro Olimpico, offriva a quei tempi ben altri due teatri, capienti, con opere di tradizione e prime esecuzioni. Il nostro tosato si accontenta del loggione: Ben fatto sìe scale son stà in sofìto e da lassù può vedere il mondo; così dipinge i vestiti alla moda e i modi della borghesia che si può permettere il posto in platea o nei palchetti:
Bion vedere che roba, che siori, che siore,
gera d’inverno e gnevegava,
ma ste mate de femene le se sventolava.
Descrive Violetta a fine opera:
Ma senza gnanca un prete, live sul pì belo
la se tira su in senton e l’anima va in siélo.
Allora i smaca le man, e i vol che la vegna fóra;
la jera morta e la caminava ancora.
Poi arriva l’ora di tornare:
Quando po’ go visto ch’el salmo xe finìo,
che tuti tira de lóngo e mi che vo drìo;
ma stansia (a causa) le broche go dà un slisigón,
che se uno no me brinca, vo do a rigolón.

Mi piace pensare che l’anonimo cantastorie si sia lasciato prendere un po’ la mano. Per l’occasione mondana il nostro tosato si sarà pur messo il vestito da festa e le scarpe, magari a prestito, e non le sgalmare con le broche, le calzature con suola di legno, tomaia e strisce di cuoio fermate da chiodi con testa sporgente che lo fanno addirittura scivolare.
Ci fanno sorridere questi arguti versi dialettali, affatto scontati, che testimoniano un interesse verso il teatro, l’opera. E così era e non mancavano le occasioni per fare e ascoltare musica. C’erano i piccoli e grandi teatri, certo, ma esistevano anche realtà amatoriali di tutto rispetto. Conservo nel mio archivio varie raccolte di riduzioni d’opera per piccola orchestra con pianoforte conduttore: il pianista suonava e dirigeva a spettacoli drammatici, Caffè concerti, Ristoranti, Grandi Alberghi, Cinematografi, ecc. Allora non c’erano le basi su cui cantare e danzare e coprire l’organico completo di archi, fiati, ottoni, percussioni (magari arpa e via discorrendo) rappresentava un costo inarrivabile. Le case editrici pubblicavano le opere più famose con trascrizioni per piccoli organici, in edizione completa o in forma di pot pourri, oggi medley.

Siamo alla fine della Singolare Narrazione, il nostro simpatico personaggio conferma tutta la sua soddisfazione e il desiderio di tornare:
Me ga così piasesto quel mostro d’un trapelo,
pì confà la sagra, col dugo (gioco) del Tornélo.
Xe ca gò la vedèla (vitella) pronta che la xe lì par fare, (partorire)
ma se non introvien disgrazia, all’opra vui tornare.
E se i la fa in Setembre, in tel dì de la Madona,
a meno do me àmeda (zia) e anca la me dona.

Che sia un augurio per noi tutti: tornare a teatro, all’opera, nelle sale di concerto, al cinema, non solo con la zia e la nostra compagna, ma in tanti e tanti.

 

 


Mario Lanaro
Divulgare la musica è il suo impegno quotidiano. All’esperienza quarantennale come docente ha affiancato la direzione di coro e orchestra, di ensemble vocali e strumentali. Molte sue composizioni, sacre e profane, fanno parte dei repertori di cori italiani e stranieri.