Leonardo Mezzalira
echi

Uno strano silenzio

Comporre durante l’epidemia? O imporsi di non scrivere? Le riflessioni di un giovane compositore contemporaneo, Leonardo Mezzalira, che avverte: il tempo in più che abbiamo non è vuoto, è abitato da un nuovo campo di forze.

Quello del compositore, della compositrice, – si tende a pensare – è sempre un lavoro solitario. Un lavoro che si svolge in casa propria, a parte poche uscite per le prove e per i concerti. Un’attività che richiede silenzio, concentrazione e libertà dai richiami del mondo esterno. Praticamente un isolamento volontario, a prima vista non diverso da quello che è richiesto alla maggior parte di noi in questo particolarissimo periodo. Un parallelismo che, sui social, ha subito generato un meme: l’immagine del compositore, alla scrivania o al computer, prima della quarantena e durante la quarantena. Due foto identiche.
Quindi – qualcuno dirà – i compositori possono continuare a lavorare come se niente fosse. Anzi, meglio e con più respiro, perché le scadenze, la bestia nera, sono tutte rimandate più o meno a data da destinarsi. Ci si può, per una volta, mettere in pari con gli impegni. E anzi prendersi avanti. Dopo tanto lavoro fatto in fretta, finalmente il tempo. Tantissimo tempo.
Ma non è sempre così. Innanzitutto in Italia – e non solo – la figura del compositore freelance di musica contemporanea praticamente non esiste. Per vivere facciamo tutti altro: c’è chi insegna, chi scrive sui giornali, chi organizza concerti o eventi, chi prosegue indefinitamente gli studi, chi fa un lavoro completamente diverso. Molti sono lavori precari, e quasi tutti sono attualmente sospesi a causa del Coronavirus. L’abitudine a stare sempre in casa non c’è. E l’improvviso vuoto ha bisogno di essere rielaborato, metabolizzato. È difficile, psicologicamente, mettersi immediatamente al lavoro.
La musica contemporanea, per Salvatore Sciarrino, nasce da una messa a fuoco della percezione. Da un esercizio di attenzione congiunto di chi scrive e di chi ascolta, che presuppone – si può aggiungere – una straordinaria sospensione interiore, un silenzio ed una quiete eccezionali. Ebbene, in questo momento, la mente non è sgombra. Per alcuni ci sono le difficoltà economiche o pratiche. Nascono preoccupazioni per la salute propria e delle persone vicine. C’è il tempo per informarsi e per comprendere, che si è dilatato smisuratamente. E in più la nostra vita, che di solito è un delicato equilibrio tra spazio privato e spazio pubblico, con la possibilità di fuggire dall’uno nell’altro, è mutila di una metà.
La verità è che il tempo in più, che è dato a molti di noi in questo periodo, non ha la stessa qualità che se fosse il risultato di una trasformazione strutturale o «sana» delle nostre vite. Non è come se fossimo tornati nell’Europa medievale, con i suoi cinque mesi l’anno trascorsi tra festività e giorni di riposo. Né come se improvvisamente il mondo avesse deciso di ridurre stabilmente i ritmi, i livelli di stress e le aspettative sociali di produttività e successo. Il tempo in più che abbiamo non è vuoto, è abitato da un nuovo campo di forze. Volenti o nolenti subiamo l’influenza di nuove polarità future: il momento in cui l’emergenza terminerà; il momento in cui sapremo se e quanto avrà modificato stabilmente il regime materiale della nostra esistenza.
In questo contesto, un’opzione è quella di non imporsi di scrivere. Giorgio Battistelli, uno dei più famosi compositori italiani di oggi, non sembra essersi buttato sulla scrittura. A giudicare dall’intervista-lampo che ha rilasciato pochi giorni fa, sembra essersi dato all’ascolto interiore e alla riflessione sul dopo-emergenza: «Sarà necessaria una ricostruzione dei rapporti politici, sociali, culturali, psicologici, economici…la nascita di nuovi rapporti umani e l’elaborazione di una cultura resiliente». E davvero questa potrebbe anche essere l’occasione, per chi scrive musica, di uscire dal proprio ambito specialistico e approfondire il proprio ruolo di pensiero, critico e propositivo, in un momento di grandi cambiamenti sociali. Da Mozart a Verdi, da Bartók a Henze a Luigi Nono, sono molti i compositori della storia che, costantemente o in determinati periodi della loro vita, hanno sviluppato forti idee sulla loro contemporaneità e le hanno applicate e diffuse.
Poi, naturalmente, c’è l’opzione di continuare a scrivere. Non mancano i casi storici di autori che, pur in situazioni di grande tensione storica o personale, hanno continuato a lavorare. Beethoven doveva essere particolarmente angosciato quando, nel 1809, Vienna venne occupata e bombardata dai francesi e l’arciduca Rodolfo, suo mecenate, fu costretto a lasciare la città: ma nello stesso periodo scrisse diversi capolavori, tra cui la Sonata per pianoforte Les adieux. Henry Cowell, durante i quattro anni che trascorse in prigione (1937-1940), scrisse più di sessanta composizioni, e Messiaen creò il Quatuor pour la fin du temps durante il suo internamento nel campo di concentramento di Görlitz. Condizioni di stress e isolamento assai più gravi di quelle che viviamo noi oggi.
Comporre, infine, potrebbe anche essere un modo di comprendere e rielaborare la congiuntura. Quasi ovunque, in questi giorni, il soundscape (così lo chiamerebbe Murray Schafer, il cui libro Il paesaggio sonoro si concentra molto sull’aspetto uditivo dei processi sociali) è cambiato radicalmente: passano pochissime automobili, gli aerei sono fermi, nessuno chiacchiera per strada, non si fanno feste né eventi, i locali sono chiusi. I rumori della società industriale, tanto presenti nella musica contemporanea insieme ai suoni della cultura di massa (da Nono a Romitelli, ai saturazionisti) lasciano il posto ad uno strano silenzio, rotto solo, la sera, dagli altoparlanti della Protezione Civile che invitano a limitare al minimo gli spostamenti. Un suono che qualcuno ha già iniziato a registrare, archiviandolo per future elaborazioni elettroniche.
Viviamo, al momento, nel bel mezzo di una ridondanza di messaggi di allarme, di parole di crisi, di testi prescrittivi, di gesti che assumono spesso una valenza sonora. E la ridondanza, secondo l’intuizione di antropologi come Lang e Malinowski, è alla base del mito e del rito: ridondanza di parole da un lato, di gesti dall’altro, che costituisce il fondamento stesso della società. I miti e i riti del nostro vivere comune, in questo momento, stanno cambiando. E forse è proprio da qui – dall’ascolto e dalla rivisitazione artistica di ciò che si sente, stando in casa o ascoltando la radio, o origliando le conversazioni dei vicini – che prenderà le mosse la rielaborazione sonora di questo specialissimo momento storico.

 


* Leonardo Mezzalira (1992) si è diplomato in Composizione a Padova sotto la guida di Giovanni Bonato. Ha studiato anche a Praga con Ivana Loudová e a Fiesole con Fabio Vacchi. Ha partecipato a numerosi festival ed è stato selezionato nell’ambito di diversi concorsi e residenze. Lavora anche come pianista accompagnatore e come giornalista musicale. Nel 2019, insieme ad altri giovani compositori padovani, ha fondato l’associazione «Taverna Maderna» per la diffusione della musica contemporanea.