Davide Strava
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Un’Alcina contemporanea, ma per una nuova umanità

Su gentile concessione del regista Davide Strava, pubblichiamo in esclusiva le sue Note di regia all’Alcina di Händel, in produzione in questi giorni al Teatro Olimpico di Vicenza, nell’ambito del Concorso Internazionale “Voci Olimpiche”.

Prima di tutto fu ed è la musica a guidare i giochi dello scoprirsi della storia. Dalla musica quindi sono partito, senza pensare a nessun movimento di scena, ma segnandomi le immagini che arrivavano man mano. Poi, piano piano, quelle immagini hanno cominciato a prendere vita e i personaggi a disegnare dei percorsi quasi ossessivi sopra il palco del Teatro Olimpico. Ho pensato alla ripetizione dell’espressionismo, al surrealismo, alle avanguardie europee, visive e poi sempre più introspettive, e proprio dalla finestra del surrealismo è arrivata un’immagine in un primo momento insensata, in seguito sempre più chiara: Sigmund Freud. Quello che viene di seguito si è definito tenendo conto di questi assi: la musica, l’immagine, i classici, la ripetizione, la psicanalisi.
Questa regia nasce durante la pandemia di Covid-19. Scenicamente e registicamente, anche a livello logistico, non si può evitare di averci a che fare. Mi sono quindi limitato a far stare questo tema seduto al mio fianco, senza evidenziarlo troppo e senza ignorarlo, ma facendolo emergere dal contesto, a volte simbolicamente. Dal contesto si scoprono anche i personaggi meravigliosi e potenti di questo capolavoro. Buona Lettura.ù

L’ALCINA DI VOCI OLIMPICHE

Se Alcina non accetta di invecchiare, non accetta nemmeno di guardarsi dentro. Il suo narcisismo però, porta quelli intorno a lei ad essere costretti a farlo. Oberto, orfano simbolico e reale del padre, legge ripetutamente l’Introduzione al narcisismo di Freud e cerca sé stesso in uno spazio intimo rappresentato da un basamento di un tempio sopra il palco, dando l’occasione anche agli altri personaggi di avvicinarsi a quello spazio in scena e dentro loro stessi.

La parte a destra dell’orchestra è lo spazio dove l’incantesimo dell’isola di Alcina accade, mentre tutto il resto è la nudità dell’accettazione della vera vita e quindi della morte, della nostra fragilità di uomini. Pile di libri sono il contatto tra quella nudità e la magnificenza del Teatro Olimpico, quasi che la bellezza dell’arte derivi e affondi le sue radici nell’introspezione e nella capacità di vivere pienamente la propria vita, integrandone gli opposti frutti, gioiosi e dolorosi, rendendoli eterni. Chi non vive o si protegge, è capace di far nascere, consapevolmente o meno, arte?

Questo percorso di autenticità oggi passa anche per la cultura e lo studio di chi viene prima di noi. La lettura e la cultura ci spingono a farci domande, e così ci aiutano ad aprire quello spiraglio doloroso che ci presenta il conto della nostra umanità. I personaggi di Alcina non sempre sanno dove stanno andando, ma le loro passioni li muovono, sono rivelazioni di un daimon che li spinge a schiudersi, a brillare o a dannarsi.

Nastri rossi e teli rossi e sbuffi di rosso negli abiti di Alcina, a simboleggiare questa predestinazione che dal desiderio dell’amore porta al dolore necessario e poi ancora all’amore. Il coro intorno vestito di rosso – che trova il suo ambasciatore in un attore che si muove e muove la storia – canta da una platea vuota, simbolo di una società che non ha fame di cultura, dedita al consumismo e che avrebbe invece bisogno, per salvarsi, di fare un salto nella ricerca interiore e nell’accettazione, nella conoscenza.

I personaggi, nel confondersi dei movimenti, diventano dei riflessi l’uno dell’altro fino a perdersi in uno spazio scenico che diventa sempre più spoglio e in cui la luce futuristica delle lampade che definiscono i luoghi di Alcina tende a diventare fioca, ribellandosi qua e là, senza riuscire a sfuggire al destino già scritto di affrontare la ferita narcisistica introdotta inizialmente da Oberto. Morgana tiene in una scatola, insieme ai giochi, i vestiti di quell’uomo finto che fu Bradamante. Così come si innamora di una finzione, di una proiezione, così stringe stretta quella finzione mentre si concede ad una finzione ben peggiore, quella di costringersi ad amare Oronte, attaccandosi con forza a quella finta “non solitudine” che lui stesso cede a darle, nonostante una punta di consapevolezza che non vuole o non può ascoltare. Morgana veloce, Morgana leggera, Morgana così fragile, forse anche più di Alcina, vestita come una borghese che si finge ribelle, incapace di stare sola.

L’orchestra sul palco guida con la musica la redenzione e rappresenta quel disegno profondo, a cui molti credono e io credo, che guida l’evoluzione dell’uomo e della storia.

Intorno a tutti giochi di bambini e peluche con cui consolarsi, che trovano il parallelismo negli amori immaturi e fintamente infiniti dei protagonisti. Solo il bambino li può salvare, solo attraverso il bambino ci si può salvare, solo il bambino è eterno. Abbracciando il bambino ferito si possono gettare le fondamenta dell’incantesimo della fioritura, solo amandosi si può amare. Forse anche Bradamante lo sa – anche se non tramite Freud ma attraverso il cuore – e per questo abbraccia più volte Oberto, perché esplorando la propria mancanza d’amore attraverso un viaggio pericoloso, si trova di fronte all’affronto della menzogna operata da Alcina ai danni di Ruggiero ed è costretta a fare i conti con il dolore, liberando sé stessa e il mondo stoppato di quell’incantesimo sbagliato.

Melisso rappresenta l’archetipo del maschile, che agisce insieme al cuore forte di Bradamante, archetipo di un femminile che deve oggi più che mai farci interrogare sui limiti del sistema patriarcale. Intelletto e cuore insieme portano a termine la missione di liberazione da ciò che vero non è, facendo cadere i castelli giocattolo, finti, di Alcina.

E Alcina dove muore per vivere? Nell’aria “Ma quando tornerai” comincia ad abbandonarsi, legata a quelle lampade la cui luce va su e giù come fossero un macchinario di una terapia intensiva e che presto, forse, si spegneranno per dare spazio alla luce reale della consapevolezza.

Colonne di libri ovunque nel finale del terzo atto, a farla da padrone, sole, insieme a quel basamento di un nuovo tempio, rimasto lì a segnare il percorso di chi è passato e di chi verrà, di un intero mondo che si salverà tornando al centro per cambiare il mondo stesso al di fuori partendo da dentro, che ritroverà nella conoscenza (prima di tutto di sé stessi) e nella fame instancabile di essa, nei sempre nuovi classici, la chiave di una nuova umanità, dove la perfezione e l’eternità siano il prodotto più alto delle nostre fragilità.